Avremmo dovuto parlarne su Clubhouse

Avremmo dovuto parlarne su Clubhouse

Oggi parliamo un po’ di Clubhouse

Clubhouse è un social network americano lanciato ad aprile 2020, basato esclusivamente sull’audio. 

Si tratta del social del momento, quello di cui tutti parlano e che sta facendo una rivoluzione (non è proprio il caso di dire silenziosa) nel mondo del social.

Ne ho parlato anche qui 👆 nell’ultimo episodio del nostro podcast.

Elite ed esclusività 

Il concetto di esclusività caratterizza fortemente Clubhouse, sotto diversi punti di vista:

  • l’app è (per ora) disponibile solo per dispositivi iPhone; 
  • l’accesso alla piattaforma non avviene solo tramite semplice iscrizione: l’utente deve infatti essere invitato oppure accettato da qualche suo contatto (il social infatti richiede l’autorizzazione alla rubrica contatti, dalla quale attinge). Solo da questo momento potrai visualizzare l’interfaccia dell’app e quindi anche tutti i contenuti disponibili;
  • ogni utente possiede un numero limitato di inviti (5) per portare amici sulla piattaforma (interessante il fatto che sotto ad ogni singolo profilo appaia anche il nome di chi lo ha fatto entrare); 
  • esiste una numero massimo (5mila utenti) che si possono trovare contemporaneamente nella stessa room. 

Tutti questi fattori portano ad una sola cosa: al desiderio.

In Italia, Clubhouse ha iniziato a diffondersi intorno a dicembre, continuando a crescere in modo esponenziale.

Come funziona 

Senza stare a fare troppa teoria, su Clubhouse esistono delle room (aka stanze) ed esistono tre differenti ruoli: moderatore, speaker e ascoltatore:

  • il  moderatore è colui che gestisce la conversazione, può invitare altri utenti a partecipare oppure togliere la parola ad uno di essi; 
  • lo speaker è la figura abilitata a parlare, che crea la conversazione insieme al moderatore; 
  • l’ascoltatore è l’utente che partecipa (messo in muto di default) alla conversazione: può chiedere la parola, alzando la mano. Il moderatore vedrà quindi una “coda di prenotazioni” e aggiungerà le persone alla conversazione, dandogli la possibilità di parlare oppure, al contrario, togliendola (in caso di contenuti offensivi o inadatti/non pertinenti al tema della room).

E ora viene il bello: in queste room cosa si fa? Si parla. Si ascolta. E basta.

Io me lo sono scaricata e posso raccontarvi la mia esperienza (ringraziamo il collega
Matteo per la gentile concessione). Ne avevo sentito parlare e alla fine ho ceduto. Un po’ per curiosità, un po’ perché, diciamolo, ci piace sempre scoprire le cose prima degli altri. Soprattutto se parliamo di un’app che al momento risulta essere fortemente limitante ed esclusiva.

In pratica

Al primo accesso, il social ti chiede (come in molti casi accade) di indicare quali macrocategorie potrebbero piacerti o essere interessanti: filosofia, musica, storia, scienza, economia, finanza ecc. Dopodiché, visualizzerai un elenco di stanze pertinenti ai temi scelti e vedrai: il nome della stanza, alcuni nomi dei partecipanti e il numero di persone che sono lì dentro. 

Poi entri, e ascolti. E ti chiedi: ”Ma io, cosa sto facendo qua?”. E poi vedi, se il discorso ti piace, resti e magari interagisci. Se no “leave quitely✌️” come recita il tasto dell’app.

La mia esperienza è stata più o meno quella di sentirmi in un mondo alieno per almeno un paio di giorni, in quanto: non sapevo esattamente come funzionasse e soprattutto trovavo solo room di americani (leggi:“non ci capivo una mazza”).

Poi, un giorno ho trovato Madame, e da quel momento mi si è aperto un mondo (lei è una specie di Queen delle room, definite addirittura “lobby” in altre room). 

Comunque, a parte gli utenti suggeriti che compaiono in base al follow, che già vediamo in altri social, in ogni room ci sono tre livelli: chi parla, gli utenti seguiti dagli speakers, e gli ascoltatori. Il secondo livello risulta particolarmente utile per creare la propria rete di following. Infatti, ogni qual volta una persona che segui partecipa o avvia una room, riceverai una notifica.

Le room possono essere spontanee o programmate. Esistono diversi vantaggi in entrambi i casi, ma dipende molto dallo scopo dello speaker/creator che c’è dietro. Banalmente, programmare una room può essere utile per organizzarsi: il creator potrà curarne la scaletta, scegliere gli ospiti; l’ascoltatore potrà aggiungerla al suo calendario e tenersi un pezzettino di tempo da dedicare alla room. Per esempio, se si tratta di una room “Addetti ai lavori del mondo del marketing”, si potrà organizzare per seguire quello che sembra essere un vero e proprio webinar. Al contrario, una room spontanea può essere utile per socializzare non per forza con un fine prestabilito, ma per il puro desiderio di parlare con qualcuno.

Definirei la mia esperienza divertente: ci ho trovato di tutto e di più.
Ho ascoltato conversazioni sul digital marketing, sul futuro del clubbing in Italia, sull’indie anni 2000 inglese, mindfulness, english practice.

Ma alla fine quello che ho capito è che non conta tanto quello ciò che si dice, l’importante è essere lì. Fare la chiacchiera, di qualunque tema essa sia. Millemila room con argomenti e focus diversi, ma che contengono sempre un solo fattore: si parla in modo amico e aperto, si parla tanto, ci si confronta. 

Influencer 

Ovviamente non c’è solo questo tipo di conversazione su Clubhouse (quella “leggera”), anzi. In realtà a prima vista sembra molto un social per “addetti ai lavori”. O comunque, sono loro ad avere il potere “più grande” in quanto esperti di un determinato argomento. Su Clubhouse c’è anche tanto marketing, finanza, tanta scienza.
Non a caso, uno dei momenti apicali nella diffusione dell’app è stato l’intervento di niente meno che Elon Musk: ospite nella stanza di “The Good Time Show”, una sorta di versione per l’app dei tradizionali late show all’americana, ha parlato di Bitcoin, viaggi su Marte, progetti in cantiere per Tesla e un sacco di altre cose. Nonostante l’ora fosse tarda, i 5mila ospiti nella stanza sono stati raggiunti immediatamente, tanto che la corsa è stata a replicare l’intervento dell’imprenditore anche in altre stanze oppure trasmetterlo in streaming su YouTube. (Questa, di fatto, è un’azione illecita. I flussi infatti non sono salvati/salvabili, a meno che non vi siano problematiche o indagini in corso). Un altro grande ospite è stato Mark Zukerberg (ma và?).

Parliamo di Influencer: quelli che abbiamo appena citato certo, ma non esistono solo loro. Esistono già tanti “influencer” in questo senso: personalità con tanti follower e room programmate con estrema cura.
L’altra sera mi è capitato di stare in una room in cui si parlava proprio di Clubhouse, e di come anche per gli influencer di questo tipo di attività possa essere difficile e stremante. Proprio perché parliamo di un social che ti avvolge completamente con la sua voce seducente, che può essere molto bello e stimolante, ma anche estremamente alienante.

L’impressione che abbiamo di Clubhouse è in sostanza positiva, perché ci trasmette confronto e apertura. 

La musica italiana su Clubhouse

La musica è presente in modo massiccio su quest’app, per diversi motivi. In primis perché trattandosi di un nuovo social, è naturale che gli artisti vogliano presidiare e comunicare anche in un altro modo (per ora ancora nuovo). Per me, che sono appassionata di questo mondo, è stato bello ma soprattutto molto strano sentire solo parlare dei musicisti, soprattutto perché (escludendo video, stories instagram o interviste) è molto particolare sentirne solo la voce. Sembra di fare un po’ amicizia con personalità delle quali ti potevi essere fatto solo un’idea. Ma un’idea che passa soprattutto attraverso l’immagine, che qui è totalmente assente.

Gli artisti comunicano in modo vario: alcune volte in modo friendly trattando temi di attualità, altre invece condividono la loro musica o creano delle jam, dandoci la sensazione di essere in una sala d’ascolto privata. In questo universo sono presenti anche svariate figure professionali (produttori, A&R, distributori) che creano invece room più tecniche nelle quali condividono la loro esperienza e scambiano impressioni e percezioni sul futuro del settore.

Il caso: Musica Italiana Clubhouse

Un caso interessante che vi voglio portare oggi è quello “Musica Italiana Clubhouse”. Questa room inizia da un gruppo di professionisti della musica: è infatti una room all’interno della quale si possono incontrare i personaggi più influenti in materia di musica italiana. Si parla sia di addetti che ai lavori che di artisti. Ma sono anche molto presenti e importanti gli ascoltatori, che intervengono spesso e in modo attivo, creando quindi una conversazione di tipo orizzontale. Questa stanza è attiva tutti giorni in tre sessioni, mattino pomeriggio e sera. Gli argomenti sono variabili. 

Il clima è così bello e stimolante che Umberto Labozzetta (esperto di comunicazione e promozione discografica) propone l’idea di produrre e promuovere un nuovo singolo di un artista emergente, selezionato tra gli artisti che frequentano la stanza di Musica Italiana Clubhouse e che invieranno il proprio brano. Ecco che un’idea diventa un contest, con un suo sito web e con un orizzonte di concretezza e opportunità tangibili. Ma soprattutto diventa “lanciare un artista tramite Clubhouse”. Tra i provini ricevuti verrà selezionato un brano, il quale sarà poi prodotto, distribuito e promosso da Musica Italiana Clubhouse.

Sociologicamente parlando

Analizzando il tutto in chiave sociologica, possiamo dire che Cloubhouse si colloca a metà tra l’individualismo e la collettività. Attenzione però a non alienarsi. Perché c’è anche chi su Clubhouse già ci vive, connesso la sera quando vai a letto e la mattina quando ti svegli. C’è anche chi:“oh mi sono addormentato due ore fa e siete ancora qua”.
In un caso di fruizione passiva, come può essere il mio, diventa un sottofondo: come la musica per addormentarsi, ma tutto il giorno.

Si crea, in questo spazio, una connessione ibrida tra la verità delle relazioni sociali (in molte room le persone si conoscono e parlano tra di loro) e l’immaterialità delle relazioni virtuali.

Proprio per la possibilità di una fruizione anche e solamente passiva, sembra che le persone abbiano bisogno di immergersi in un flusso comunicativo costante sì, ma anche distratto e per certi versi assente.

Torniamo ancora a Mc Luhan, ribadendo che il senso del medium è il medium stesso: è il mezzo il messaggio, non tanto quello c’è dentro, quello che in questo caso “sentiamo”. Quindi il messaggio, in questo caso, è che forse esiste una piccola insenatura composta da un’utenza che ha bisogno di un sottofondo sempre (assolutamente compatibile con la fruizione contemporanea dei media). Inoltre, la sensazione è che l’utenza digitale oggi senta anche il bisogno di percepire la prossimità delle persone con cui interagiamo sui social. 

La voce, in questo senso, è il medium primordiale. Racconta la voglia di ritornare alla relazione autentica, priva del filtro che si deposita sulle immagini iper-costruite dei social “classici” (tra l’altro non l’abbiamo detto fino ad ora ma:”Ci era possibile immaginare un social senza immagini?” Io non credo). In una società basata sull’immagine e sul visivo, Clubhouse racconta la necessità di riportare l’esperienza virtuale all’interno di un contesto che sia il più “umano possibile”. Il problema è che comunque siamo umani sì, ok la voce, ma siamo comunque dentro a un cellulare. E questo lascia spazio alla riflessione già accennata, quella dell’alienazione totale. Difficile immaginare questo scenario nel prossimo futuro, specialmente in un tempo in cui le relazioni classiche non sono proprio possibili e la voglia di parlare, confrontarsi e conoscere è davvero tanta, forse troppa.

In questo periodo storico, Clubhouse abbraccia perfettamente un bisogno della società, e cioè quello di socializzare: discutere di temi importanti, ascoltare musica inedita, ma anche solo farsi una chiacchiera.

Ci avrà già stufati? Invecchierà bene? Chi lo sa. Noi, restiamo in ascolto.

 

Raccontare i musei all’alba: alla Reggia di Venaria il primo #WakeUpMuseum

Raccontare i musei all’alba: alla Reggia di Venaria il primo #WakeUpMuseum

Nel suo ultimo libro, Un altro giro di giostra, Tiziano Terzani a un certo punto ci descrive le sensazioni che proviamo quando assistiamo al primo crepuscolo del sole e ci spiega perché “l’ora più bella è quella dell’alba, quando la notte aleggia ancora nell’aria e il giorno non è ancora pieno, quando la distinzione fra tenebra e luce non è ancora netta.”  E lo fa facendoci notare che “per qualche momento l’uomo, se vuole, se sa fare attenzione, può intuire che tutto ciò che nella vita gli appare in contrasto, il buio e la luce, il falso e il vero non sono che due aspetti della stessa cosa. Sono diversi, ma non facilmente separabili, sono distinti, ma non sono due.”  L’alba insomma cambia totalmente l’ambiente in cui ci troviamo rendendolo qualcosa di diverso sia da quello che è poco prima durante la notte, sia da quello che diventa poco dopo con la luce del giorno. È un momento irripetibile durante la giornata, che per di più dura pochissimi minuti.

Ecco, la Reggia di Venaria insieme agli Igers di Torino e del Piemonte (e con la collaborazione di Dunter) hanno pensato che sarebbe stato bello raccontare questo momento unico, in un luogo altrettanto unico: è questa l’idea che sta alla base del #WakeUpMuseum che si terrà il prossimo 16 settembre.

Un numero limitato di Instagramers potrà visitare e catturare i giardini, le stanze e le gallerie della Reggia a cavallo del crepuscolo mattutino, con l’opportunità esclusiva di vivere il “risveglio” di uno dei spazi museali più visitati d’Italia e raccontando i primi segnali di luce, di suoni e di vita che lo attraverseranno. L’evento conta, fra gli altri, la preziosa collaborazione con Abbonamento Musei e Turismo Torino. Tutti gli scatti durante la visita potranno essere visualizzati su Instagram seguendo l’hashtag #WakeUpReggia e se qualcuno vorrà seguire l’evento in diretta, dovrà alzarsi dal letto piuttosto presto: il sole spunta alle 7:05 circa.

Dopo essere stata la prima istituzione museale ad aver promosso in Italia prima un evento #Empty e poi un #MuseumInstaSwap, la Reggia di Venaria (che quest’anno festeggia il decimo anno di apertura al pubblico) sperimenta dunque una nuova forma di storytelling dei propri spazi architettonici e del proprio patrimonio artistico. E, a questo giro, è la prima al mondo a farlo.

TocTocDoor, il primo Social Network di quartiere

TocTocDoor, il primo Social Network di quartiere

Da qualche parte esiste una camera tappezzata di poster e, al suo interno, c’è sicuramente un ragazzino brufoloso dotato di occhiali enormi ed ego minuscolo. La sua patologica paura dell’altro sesso è palpabile. Un giorno bussano alla porta di casa, lui apre e scopre che la capo cheerleader del liceo è sua vicina e ha finito lo zucchero.

Altrove c’è invece una casa che versa nel caos. Appartiene a una ragazza-madre single che annega nell’alcol e che consuma tre pacchetti di sigarette al giorno. Poi però suonano alla porta: è la nonnina del primo piano che ha fatto i biscotti e che vuole condividerli con lei.

Queste sono solo due delle classiche situazioni da film in cui i vicini si presentano alla porta con le scuse più disparate e danno il via a una serie di eventi che va sempre a finire nel migliore dei modi, almeno sul grande schermo.

Nella realtà -ammettiamolo- è già tanto se conosciamo il nome di battesimo del nostro dirimpettaio. Che ci vada pure a genio è quasi utopia. Non sarebbe però bellissimo se il nostro quartiere ricordasse la Stars Hollow del telefilm Gilmore Girls, dove tutti sono amici di tutti e si partecipa a eventi comunitari?

Forse ciò accade solo nelle serie TV, ma almeno adesso, grazie all’idea dei fratelli Trigiani, possiamo provare a scoprirlo.

Un anno fa, a Torino, è infatti nato TocTocDoor, il primo Social Network di quartiere che mira a farci entrare nelle case degli altri attraverso la porta più discreta: quella rassicurante del pc.

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In un’epoca in cui le relazioni sociali si intrecciano sempre di più nella rete, una startup italiana ha pensato di approfittare di questo fatto per “avvicinare i vicini”.

Su TocTocDoor si possono condividere interessi, esperienze e informazioni utili al fine di scoprire se nei paraggi qualcuno possiede i nostri stessi hobby o semplicemente la nostra stessa voglia di fare nuove amicizie.

Il progetto è partito da alcuni quartieri centrali della capitale Piemontese, che pare essere stata quella con la risposta migliore ai sondaggi. Tutto ha avuto inizio con una campagna Facebook per poi evolversi nella distribuzione di volantini di invito all’interno degli esercizi commerciali delle zone interessate.

Vuoi portare il cane a spasso ma non hai voglia di farlo da solo? Vuoi proporre una gita in bicicletta ma i tuoi amici sono degli scansafatiche? Ti annoi e vuoi sapere se ci sono eventi particolari nel tuo quartiere? Beh, TocTocDoor ti da la possibilità di scoprire quante e quali porte si apriranno per te.

Il progetto TocTocDoor si trova su Facebook, su Twitter, su YouTube sul sito ufficiale.

L’utilizzo di Snapchat per comunicare i musei e gli spazi culturali

L’utilizzo di Snapchat per comunicare i musei e gli spazi culturali

Un museo è un luogo dove si dovrebbe perdere la testa” scrisse una volta Renzo Piano. Parole che Jake Marshall, un giovane visitatore del British Museum, ha preso forse troppo alla lettera: attraverso l’app di Snapchat ha prodotto una serie di selfie all’interno museo, utilizzando la funzione faceswap. Il risultato è che in decine di scatti la sua faccia è finita al posto di quelle raffigurate nelle opere esposte che a loro volta sono finite sul viso del visitatore. Marshall ha voluto promuovere questa sua iniziativa prima privatamente sul proprio profilo Facebook, poi pubblicamente su Reddit: da lì in poi il suo faceswap è stato un successone che ha generato 500mila e passa visualizzazioni. Mai tanta fama digitale per delle opere esposte in un museo.

Il futuro è uno Snap?
Che anche l’arte generi viralità su Snapchat non sorprende poi molto: stiamo parlando dell’app del momento, forte dei suoi 158 milioni di utenti attivi ogni giorno e del suo tasso di crescita spaventoso (+48% tra il 2015 e il 2016), capace di attirare un pubblico di giovanissimi, soprattutto adolescenti. Questo successo ha generato una rincorsa a “copiare” Snapchat: basti pensare che su Instagram, Messenger, WhatsApp e la stessa applicazione di Facebook sono apparsi di recente sia i filtri creativi, sia le opzioni per inviare foto e video che scompaiono da soli. Dall’altra parte su queste app hanno fatto capolino le stesse Storie, con un funzionamento praticamente identico a quelle che sono già presenti su Snapchat. Non è un caso quindi che la Snap Inc. che possiede e sviluppa Snapchat si è appena quotata in borsa: nel suo primo giorno è passata dai 17 dollari del prezzo iniziale a 24,48 dollari, diventando una IPO, il termine che Wall Street utilizza per indicare una delle offerte pubbliche iniziali di maggiore successo degli ultimi anni.

Non solo brand
Per mettere un’ipoteca sulla generazione dei millennials, una quantità sempre più numerosa di aziende (soprattutto nel settore del fashion) ha iniziato a investire in Snapchat utilizzando le tante funzionalità a disposizione e cercando di parlare lo stesso linguaggio accattivante dei giovanissimi utenti che utilizzano la piattaforma. Ma ad aprire canali Snapchat non sono stati solo i brand: negli ultimi anni molti musei, gallerie d’arte e spazi culturali hanno deciso di snappare per intercettare il pubblico di teenagers, sperimentando delle strategie che mixano la dimensione ricreativa a quella educativa e divulgativa, un po’ come la simpatica improvvisazione di Jake Marshall al British Museum. Dall’altra parte, come perdere un’occasione simile? Ecco di seguito alcune dei tentativi più riusciti di grandi e piccoli musei che hanno aperto un loro profilo su Snapchat.

Los Angeles County Museum of Art (Los Angeles, USA)
Il prestigioso LACMA di Los Angles è stato uno dei primi musei ad aprire un canale su Snapchat e ha offerto una narrazione intelligente e dissacrante del proprio patrimonio artistico: alcuni capolavori storici sono stati “riletti” attraverso riferimenti alla cultura pop. Ad esempio un dipinto del 17esimo secolo di Simon Vouet è stato accostato ad un verso di una canzone della rapper Iggy Azalea (amatissima dai giovani) mentre il celebre quadro Leda e il cigno di François Boucher si è ritrovato come didascalia una frase di Jon Snow presa direttamente dalla serie di Games of Thrones.


Grazie a questa strategia creativa, ammiccante e divertente il profilo del LACMA ha guadagnato in poco tempo decine di migliaia di seguaci e recentemente ha promosso anche strategie più strutturate. In partnership con Disney il museo ha lanciato infatti una campagna Snapchat per raccontare i grandi classici del gigante dell’intrattenimento attraverso le proprie opere d’arte e sugli account Snapchat OhMyDisney e LACMA è stata rivisitata attraverso degli snap modificati una storia come “La bella e la bestia”.

Blanton Museum of Art (Austin, USA)
Una strategia simile è stata sperimentata anche dal Blanton Museum of Art di Austin. Gli scatti su Snapchat sono stati accompagnati da didascalie che contestualizzavano le opere d’arte alle atmosfere del 21° secolo, parlando uno slang 2.0 che si utilizza sui meme e sulle immagini di tumblr. Il ragionamento di Alie Cline, responsabile della comunicazione digital del museo, è stato molto semplice:

“se il 77% degli studenti universitari utilizzano Snapchat almeno una volta al giorno, per noi, un museo d’arte dell’Università del Texas, diventa fondamentale raggiungerli direttamente sui loro smartphone”.


La sfida insomma, è sorprendere l’utente contraddicendo l’idea che raccontare un museo debba essere per forza di cose un’attività noiosa e demodé. Il risultato, invece, è stato a dir poco travolgente: perché oltre a dimostrare che un’opera d’arte ideata 300 anni fa può essere attualizzata al mondo di oggi, l’utilizzo di Snapchat può rendere la stessa idea di museo più appetibile e vicina alla dimensione quotidiana dei giovani, anche con quel pizzico di autoironia che non guasta mai. Dall’altra parte sempre Cline fa notare che

“una parte del fascino di Snapchat è che permette ai musei di prendere in giro se stessi.”

Casa Batllo (Barcellona, Spagna) e Museum of Fine Arts (Boston, USA)
Se non sono le didascalie, sono le emoticons a innescare contrasto e creatività con le opere d’arte di un museo: è il caso di Casa Battlo, popolarissima opera architettonica di Gaudì e patrimonio Mondiale dell’UNESCO dal 2005. Come ha spiegato Pilar Delgaldo

“Su Snapchat pubblichiamo il lato “B” di Casa Batlló, quello che non si vede durante le visite perché raccontiamo cosa accade nel nostro ufficio, abbinato a emoticons, in formato sia audio che video”


La strategia vincente qui è la genuinità degli scatti:

“uno degli aspetti più interessanti di Snapchat è l’immediatezza e la trasparenza. Non è possibile ritoccare le foto come in altri social o programmare contenuti, questo fa si che il contenuto sia credibile.”

Le emoticons fanno capolino anche sul canale Snapchat del Museum of Fine Arts di Boston: questa volta le protagoniste sono le opere d’arte, declinate dalla loro rappresentazione in forma di “faccine”.

Honolulu Museum of Art (Honolulu, USA)
Anche uno dei maggiori e più antichi musei degli Stati Uniti, l’Honolulu Museum of Art ha saputo giocare in modo innovativo sul proprio canale Snapchat. Lo ha fatto innanzitutto grazie alla funzione faceswap, magari ispirandosi all’esperienza di visita di Jake Marshall che abbiamo raccontato ad inizio post. Il Social Media Manager del museo si è divertito a “swappare” la propria faccia con quelle di alcune opere d’arte, siano esse sculture o dipinti.


In seconda battuta il museo ha sperimentato diversi concorsi utilizzando proprio Snapchat: ad esempio ha promosso una concorso creativo di doodle a tema “spazio”, invitando gli utenti a scattare degli snap delle opere d’arte e disegnarci sopra fantasie “spaziali”. Contest di questo tipo sono proposti periodicamente e in palio ci sono perfino biglietti per serate esclusive, incluse le cene cucinate dallo chef del museo: niente male, visto il costo di due ingressi per feste di questo tipo si aggira intorno ai 300 dollari.

Denver Museum of Art (Denver, USA)
Un ultimo bell’esempio di coinvolgere i visitatori attraverso Snapchat è l’utilizzo dei geofilter: si tratta di particolari adesivi che appaiono solo in determinate aree geografiche (delimitate da chi li genera) e che vengono declinati graficamente per identificare il luogo da cui un utente ha inviato uno snap. Ovviamente i musei sono dei luoghi perfetti dove promuovere l’uso di geofilter e il Denver Art Museum ha colto l’occasione al volo, invitando i visitatori ad utilizzarli in vari luoghi della struttura mentre “snappano” immagini e video.


Secondo Elle Welch, responsabile Media del Museo, i geofilter hanno saputo intercettare il desiderio creativo dei millenials:

“siamo uno dei primi luoghi di interesse a Denver ad avere generato un Geofilter. Sapevate che quattro milioni di scatti vengono inviati ogni giorno su Snapchat? È eccitante sapere che ora il Denver Museum of Art fa parte di questo gigantesco flusso creativo.”

Te lo buco quel pallone
Didascalie, emoticon, faceswap, contest creativi, geofilter e cacce al tesoro: il panorama delle sperimentazioni dei musei su Snapchat è comunque in continua evoluzione. E mentre da noi in Italia è stato Palazzo Grassi uno dei primi musei ad aver attivato un canale Snapchat, molte altre istituzioni museali si stanno attrezzando per entrare in sintonia con un linguaggio digitale tanto nuovo quanto necessario da padroneggiare. Perché mentre un tempo l’approccio verso i passatempi delle generazioni emergenti era “te lo buco quel pallone” oggi quelli stessi passatempi possono diventare un mezzo prezioso per entrare in contatto con un pubblico di giovanissimi e coinvolgerlo in una nuova esperienza di visita degli spazi culturali. Per chi promuove la comunicazione dei musei dunque non restano molte alternative: con quel “pallone” è necessario giocare.

#MuseumInstaSwap: 18 Musei di New York si sono raccontati a vicenda su Instagram

#MuseumInstaSwap: 18 Musei di New York si sono raccontati a vicenda su Instagram

Ieri, martedì 2 febbraio, è stata una giornata singolare per gli utenti di Instagram che seguono gli account di alcuni musei di New York. Chi sfogliava le foto postate del Jewish Museum all’improvviso si è trovato davanti le opere d’arte dello Studio Museum di Harlem. Chi ha navigato nell’account dell’American Museum of Natural History ha visto i dipinti e le sculture del MoMa (e viceversa).

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#MuseumInstaSwap
Lungi dall’essere stato un bug generalizzato su Instagram, gli utenti hanno vissuto in prima persona l’iniziativa #MuseumInstaSwap, con la quale ben 18 musei della grande mela hanno deciso per 24 ore di postare sul proprio account Instagram le opere storiche, artistiche o naturali di un altro museo (che ha ricambiato facendo lo stesso). A tutti gli effetti dei veri e propri gemellaggi su Instagram, in cui un museo ha fatto eco ad un altro e a cui hanno partecipato alcuni fra i più importanti spazi culturali di New York, molto diversi fra loro: dall’Intrepid al Cooper Hewitt Smithsonian Design Museum, dal Queens Museum fino al Metropolitan Museum of Art.

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Da Londra a New York: come funziona
Una sorta di “partnership social”, che prende ispirazione da un progetto simile a cui hanno preso parte dieci musei di Londra nel 2015, fra cui il British Museum e il Victoria and Albert Museum. Ma come funziona esattamente? A New York il referente digital di un museo è stato invitato a visitare il museo da raccontare in diretta su Instagram, e viceversa, per poi procedere ad uno storytelling “incrociato”. Ma l’accoppiamento fra musei non è stato casuale: è stato invece il risultato di un processo di selezione in cui ogni museo ha compilato una lista preferenziale di altre realtà con cui avrebbe voluto essere “swappato”. E’ stato poi un algoritmo che, considerando tutte le preferenze, ha accoppiato i musei partecipanti.

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Non solo una condivisione di pubblici
Ma con #MuseumInstaSwap non solo si sono condivisi i rispettivi pubblici su Instagram. In modo sorprendente sono anche nate collaborazioni diverse su terreni inaspettatamente vicini. Ad esempio il Museo di Arte e Design ha scoperto di avere un sacco di cose in comune con il Whitney Museum of American Art. E chi avrebbe detto che il Museum of Contemporary African Diasporan Art avrebbe trovato di avere la stessa mission culturale con la Neue Galerie di New York (un museo di arte tedesca e austriaca)? Perfino Gretchen Scott, il direttore del marketing digitale del MoMA, si è detto entuasiasta di esplorare il Museo di Storia Naturale scoprendo che molti degli artisti che hanno dipinto gli sfondi dei diorami del Museo di Storia Naturale hanno lavorato proprio al MoMa. In questo senso il #MuseumInstaSwap, è diventato anche un modo per conoscere meglio se stessi raccontando gli altri. Dopotutto, come scrisse Paul Aster, “basta guardare qualcuno in faccia un po’ di più, per avere la sensazione alla fine di guardarti in uno specchio”.

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